Dall’Australia una class action contro il divieto di pubblicità cripto su Google e Facebook

La diffusione di Bitcoin e criptovalute, dopo il boom del 2017, per svariati motivi ha subito un brusco rallentamento. Rallentamento che solo oggi pare si riesca a disinnescare, dal momento che il mercato delle cripto appare in costante ascesa.

Uno dei motivi per cui l’intero ecosistema ha sofferto per un evidente stop è stato senza dubbio l’ostilità inizialmente palesata da Google e Facebook.

Oggi, però, qualcosa potrebbe cambiare.

La “guerra” alle cripto di Facebook e Google

A inizio 2018, Facebook ha deciso di vietare le inserzioni sulle criptovalute (sia quelle in circolazione sia quelle future che si sarebbero presentate sul mercato attraverso il processo di ICO); dopo il primo social network anche il primo motore di ricerca (Google) ha preso la stessa direzione, contrassegnando come “bad ads” tutte le pubblicità inerenti la promozione di ICO e criptovalute.

I due colossi americani hanno dovuto prendere tali severe e drastiche decisioni a causa del proliferare di ICO e siti fraudolenti; queste scelte, però, si sono rivelate in contrasto con i numerosi progetti “corretti” presenti nella rete.

Un lento ritorno alla normalità sembra stia avvenendo in questi mesi, tuttavia un possibile “scossone” sembra arrivare dall’Australia, paese in cui uno studio legale ha citato Google e Facebook per il loro ostracismo dimostrato in questi ultimi due anni e mezzo.

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La causa

JPB Liberty, uno studio legale con sede a Philip Bay, nel New South Wales, ha intentato un’azione legale collettiva presso la Corte Federale del New South Wales. Lo studio legale sostiene che Facebook e Google si siano impegnati in comportamenti anticoncorrenziali vietando la pubblicità di criptovaluta nel 2018.

JPB sostiene che il divieto, (che come abbiamo detto pare essersi attenuato nel 2019 e nel 2020), ha inferto un duro colpo al mercato dell’offerta iniziale di monete (ICO) e ha portato a gravi danni finanziari al più ampio settore delle criptovalute.

L’amministratore delegato di JPB Liberty, tale Andrew Hamilton, ha proferito parole pesantissime, affermando che “queste due società di alto profilo avevano agito come un cartello quando hanno lanciato il divieto di pubblicità di criptomoneta. Questa era presumibilmente una mossa strategica e calcolata che mirava a annullare la possibilità di concorrenza dal settore della blockchain”.

La causa è riuscita a raccogliere più di $ 600 milioni di reclami dalla comunità delle criptovalute. Le iscrizioni del richiedente rimarranno aperte fino al 21 agosto.

Le richieste

Difficile spuntarla contro i colossi del web, tuttavia lo studio spera che in caso di esito positivo della causa, una quota del diritto al risarcimento danni del ricorrente verrà corrisposta a JPB Liberty e ai titolari di token che hanno finanziato l’azione collettiva.

Hamilton ritiene che l’importo delle richieste di risarcimento possa crescere fino a $ 300 miliardi prima della scadenza.

Il CEO ha anche sfidato il pretesto del gigante della tecnologia di proteggere i propri consumatori dalle truffe per giustificare il divieto di pubblicità cripto, dal momento che – nonostante i divieti – truffe di furto d’identità (l’abbiamo visto) troppo spesso proliferano su Youtube, operando sì in cripto, ma in modo totalmente dissociato e indipendente da blockchain, ICO e cripto monete.

Vedremo come andrà a finire, ci chiediamo più che altro se questo sia il metodo giusto per far rimuovere un veto che, pur a lenta velocità, si stava autonomamente escludendo.

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