Il Bitcoin nei movimenti di protesta globali

Con politici come Jair Bolsonaro, Boris Johnson e Donald Trump il sentimento anti-governativo è negli ultimi tempi cresciuto a livello globale. Durante questa estate, le proteste di Black Lives Matter hanno devastato molti paesi occidentali ma soprattutto le principali città americane.

Ad Hong Kong, le proteste antigovernative sono nuovamente scoppiate non appena quel territorio si è temporaneamente ripreso dalla pandemia di Covid-19. Nelle Filippine sono scoppiate proteste contro la legge antiterrorismo del presidente Rodrigo Duterte, per non parlare delle proteste ancora più accese che si sono verificate in sud America prima che la pandemia di coronavirus ne obbligasse la sospensione.

Queste tendenze alla manifestazione antigovernativa non sono certo una novità. Nel corso della storia “le proteste” hanno fatto parte dello sviluppo politico di molti stati, ma ciò che distingue le attuali ondate di disobbedienza civile da quelle passate è la centralità sempre maggiore della tecnologia. Nel mondo di oggi, i social media (e le tecnologie emergenti come la blockchain) stanno giocando un ruolo crescente e fondamentale da un lato per le masse irrequiete e dall’altro per i governi che cercano di reprimerle.

Proteste e social media

I social media hanno consentito che gli “inviti all’azione” raggiungessero istantaneamente un vasto pubblico, fungendo da vera e propria cassa di risonanza per i promotori. Un unico titolare di account su social media può infatti lanciare, facilitare ed organizzare proteste dalla portata senza precedenti. Tuttavia, sebbene i progressi tecnologici abbiano certamente contribuito alla proliferazione dei movimenti sociali, sono stati anche sempre più uno strumento delle amministrazioni centralizzate per seguire, se non soffocare, queste manifestazioni anti-establishment.

Ciò è tanto più evidente in Cina, nazione con una delle popolazioni più sofisticate al mondo dal punto di vista digitale, ma il cui governo ha a sua volta utilizzato la tecnologia per monitorare e controllare la sua gente in maniera piuttosto esplicita.

Indipendentemente dall’entità dell’effettiva sorveglianza statale a Hong Kong, i manifestanti non dubitano che la minaccia della tecnologia di riconoscimento facciale sia già reale, e per ciò abbattono già i “lampioni” sospettati di essere predisposti a tale scopo, indossando maschere per evitare di essere incriminati.

C’è chi sostiene che il riconoscimento facciale consenta nuove forme di totalitarismo. Nella Cina continentale, dove la tecnologia di riconoscimento facciale è già ampiamente utilizzata, ad alcuni poliziotti sono stati addirittura forniti occhiali per il riconoscimento facciale, utili ad identificare potenziali trasgressori.

I timori di ritorsioni cinesi per le proteste antigovernative sono aumentati nei giorni immediatamente successivi alla recente attuazione della legge sulla sicurezza nazionale. Si è diffusa la pratica tra i citati manifestanti di affrettarsi a cancellare qualsiasi prova digitale rimasta di eventuali passate partecipazioni ad eventi di movimenti antigovernativi. 

Seppur in misura minore, paure simili esistono in realtà in tutto il Pacifico, dove i manifestanti di Black Lives Matters esortano le persone ad astenersi dall’utilizzare i social media per documentare proteste non autorizzate, o almeno ad offuscare i volti dei manifestanti che potrebbero essere a rischio di essere arrestati in seguito. 

Sebbene il governo americano sia meno esplicitamente impegnato a tali scopi o comunque in grado di monitorare la propria gente, la sfiducia nei confronti delle agenzie di intelligence quali CIA ed FBI è elevata. Nonostante che i manifestanti  abbiano di recente esercitato notevoli pressioni affinché venga sospeso l’uso da parte della polizia della tecnologia di riconoscimento facciale, le preoccupazioni sulla possibilità o meno di partecipare ad una protesta potrebbero risultare in qualche modo fondate.

Da questo quadro deriva che le organizzazioni antigovernative in tutto il mondo stanno oggi cercando di rimanere un passo avanti rispetto ai governi in tema di tecnologia di sorveglianza. Ad esempio sono trapelati da Hong Kong agli Stati Uniti consigli ed accortezze su come evitare di essere identificati durante una protesta, detti suggerimenti includono l’acquisto di telefoni masterizzati, l’utilizzo di schede SIM prepagate, l’uso di occhiali da sole a specchio che deviino la luce a infrarossi (la quale alimenta il riconoscimento facciale), ed il lasciare a casa carte di credito o altre forme di identificazione.

I manifestanti utilizzano anche social media e app di messaggistica come Telegram e Signal le quali sono più sicure dal punto di vista dell’intercettazione governativa. Dato che le forze dell’ordine usano la tecnologia per penetrare all’interno delle proteste stesse, i manifestanti ora a loro volta la utilizzano come scudo dalle interferenze esterne. È innegabile dunque come la tecnologia possa rappresentare un’arma a doppio taglio, anche se certamente i singoli individui, pur avendo accesso alla strumentazione tecnologica, non hanno né le risorse e né il potere politico per sostenerne determinati utilizzi.

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Qualche spiraglio grazie alla blockchain

Se pur vero che rispetto alla tecnologia tradizionale gli individui non possiedono le risorse che hanno i governi, la blockchain potrebbe essere la chiave per ribaltare questo tipo di situazione. Le caratteristiche chiave della blockchain sono la decentralizzazione, la trasparenza, l’efficienza e l’assenza di fiducia tra le parti, e queste prerogative sono proprio alcune delle pietre angolari dei movimenti anti establishment odierni.

Gli attivisti di Black Lives Matters hanno già cominciato a sfruttare queste peculiarità della tecnologia blockchain per scopi di protesta. Il progetto “No Justice No Peace”, ad esempio, è un esperimento prodotto allo scopo di richiamare l’attenzione su 30 omicidi nei quali siano rimasti coinvolti agenti di polizia, per commemorare ed imprimere i nomi delle vittime “immutabilmente” sulla blockchain.

Imprimendo per sempre le informazioni raccolte su ogni caso di violenza, secondo il progetto, viene creato un lascito a nome di ogni vittima. Ogni input crittografico conterrà una criptovaluta con l’immagine dell’assassino. Le chiavi private dei relativi gettoni verranno distrutte così che nessuno lo possa mai più controllare o modificare. Questi token conseguentemente non potranno essere censurati, o rimossi.

Questo progetto vede una collaborazione con DADA Art per il mercato dei token non fungibili (NFT), e la società di archiviazione di file basata su blockchain Arweave, e promuove la sfiducia dei manifestanti nei confronti delle istituzioni tradizionali. Ciò mediante il mantenimento nei registri pubblici della blockchain delle uccisioni.

Anche la criptovaluta è stata cooptata da alcuni all’interno della causa Black Lives Matter, alcuni oratori ai relativi raduni sollecitano investimenti in Bitcoin come forma di protesta contro i sistemi finanziari che storicamente hanno svantaggiato i neri o comunque le popolazioni indigene.

Amun, società di token di asset digitali, afferma che “le criptovalute, principalmente stablecoin ancorate all’USD, [sono] un importante veicolo di investimento per fuggire dai controlli sui capitali delle famiglie ricche che cercano di spostare i propri soldi fuori dalla Cina”. Anche gli investitori con sede a Hong Kong, secondo Amun, sono fuggiti a Singapore mediante le stablecoin nel tentativo di preservare la loro ricchezza.

Pur non protestando apertamente, spostare una quantità significativa di denaro ed altri beni da un paese a un altro è anch’essa una forma di registrazione dell’insoddisfazione nei confronti del governo in carica. L’emittente finanziaria Max Keizer ha dichiarato che se i prezzi di bitcoin salissero a nuovi massimi quest’anno potremmo dover ringraziare la “fuga di capitali dall’Asia”.

Anche le persone meno abbienti si sono rivolte alle criptovalute non quale modo per preservare la propria ricchezza, ma per sostenere con discrezione determinate cause politiche. A Hong Kong, l “economia del cerchio giallo” (una rete di imprese pro-democrazia supportate dai manifestanti), ha lanciato appelli per accettare più ampiamente la criptovaluta con scopi di anonimato. La domanda di Bitcoin in queste aree è naturalmente aumentata come conseguenza a quanto appena visto, arrivando a toccare i 2,4 milioni di dollari solo nella prima settimana di questo mese (rispetto agli 1,5 milioni di dollari dell’intero mese di luglio).

Ci sono state anche proposte di coniare una criptovaluta che abbia il preciso scopo di sostenere i manifestanti pro democrazia di Hong Kong. Esperimenti del genere conssentirebbero una blockchain dedicata da utilizzare nei canali del cerchio giallo, e con l’obiettivo di divenire in futuro la reale valuta sovrana di Hong Kong. Discorsi simili emergono soprattutto tra i gruppi pro-democrazia in Telegram, molto attivi contro le discutibili pratiche sulla privacy dei dati delle istituzioni finanziarie tradizionali, e dei sistemi di pagamento come ad esempio Alipay.

Anche Telegram appoggia la protesta civile?

Telegram stessa ha dimostrato interesse per lo spazio crittografico. L’azienda raccolto circa 1,7 miliardi di dollari in una ICO del progetto Telegram Open Network (TON), una piattaforma blockchain con “Gram” quale potenziale criptovaluta circolante. Il progetto è continuato per circa due anni e mezzo prima di soccombere sotto le pressioni della SEC. Nell’ottobre del 2019, l’agenzia governativa ha citato in giudizio Telegram, ritenendo il token Gram una vendita di titoli non registrati. Telegram ha protestato sostenendo il contrario, tuttavia, all’inizio di quest’anno un tribunale distrettuale degli Stati Uniti ha emesso un’ingiunzione preliminare che inibisce de facto la consegna dei “Grams”. La corte ha anche riscontrato come la SEC avesse dimostrato con sostanziale probabilità “che le vendite di Telegram facessero parte di un programma più ampio per distribuire illegalmente i Gram nel mercato secondario”.

Il fondatore di Telegram Pavel Durov ha dichiarato: “oggi siamo in presenza di un circolo vizioso: non si può portare più equità in un mondo eccessivamente centralizzato, proprio perché lo è. Ci abbiamo comunque provato”. “Stiamo lasciando alle prossime generazioni di imprenditori e sviluppatori il compito di raccogliere la bandiera ed imparare dai nostri errori”, ha aggiunto Durov. “A tutti coloro che lottano per il decentramento, l’equità e l’uguaglianza nel mondo: state combattendo una giusta battaglia. Questa battaglia potrebbe essere la più importante della nostra generazione. Ci auguriamo che tu abbia successo dove noi abbiamo fallito“.

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